[Il marchese, di umiltà,] “N’aveva quanta ne bisognava per mettersi al di sotto di quella buona gente, ma non per istar loro in pari”.
Nel precedente articolo dicevamo di un secondo pranzo d’una certa importanza, avvenuto diverso tempo dopo il primo, sempre nel palazzotto che era stato la roccaforte del fu don Rodrigo. Si è anche già ricordato che, in realtà, in quell’occasione, ci furono due pranzi distinti e quasi in contemporanea ed è su questo particolare che ci vogliamo soffermare un po’.
Celebrato il matrimonio di Renzo e Lucia, il giorno dopo i novelli sposi, con Agnese, la mercantessa, – già compagna di Lucia nella quarantena al lazzeretto di Milano –, e don Abbondio, sono invitati a pranzo dal marchese, nuovo inquilino alloggiato nel già famigerato e inquietante palazzotto.
Leggiamo direttamente dal romanzo. “Il marchese fece loro una gran festa, li condusse in un bel tinello, mise a tavola gli sposi, con Agnese e con la mercantessa; e prima di ritirarsi a pranzare altrove con don Abbondio, volle star lì un poco a far compagnia agl’invitati, e aiutò anzi a servirli. A nessuno verrà, spero, in testa di dire che sarebbe stata cosa più semplice fare addirittura una tavola sola. Ve l’ho dato per un brav’uomo, ma non per un originale, come si direbbe ora; v’ho detto ch’era umile, non già che fosse un portento d’umiltà. N’aveva quanta ne bisognava per mettersi al di sotto di quella buona gente, ma non per istar loro in pari(1)”.
Umiltà e minorità non sono proprio la stessa cosa e, sicuramente, il Manzoni, notando la limitata umiltà del marchese, non voleva evidenziare che non ci si trovava davanti proprio ad un esemplare frate minore. Sarebbe tuttavia un po’ bizzarro negare o anche solo minimizzare la stretta parentela che intercorre tra le due cose: e non esclusivamente a senso unico, come fosse solo la minorità ad implicare. l’umiltà
Certo, non si potrebbe facilmente immaginare il tenore dei discorsi che si sarebbero potuti fare, nel caso di una tavolata unica; anche il semplice vocabolario a disposizione della gente del popolo fa problema davanti a chi sa di “latino” e “latinorum(2)” ed altre cose, che volano più alto e che esulano, almeno apparentemente e più o meno direttamente, dalla buona conduzione degli orti e dei filatoi. Lo sa il popolo e il comune(3) che il “verbum mentis” non sempre riesce a trovare adeguata espressione nel “verbum oris” e che però, a sua volta, l’esigua consistenza del “verbum oris” finisce con limitare la stessa ampiezza del “verbum mentis”. Sforzandoci a immaginare un po’, forse la conversazione sarebbe potuta andare bene se tutti gli ipotetici commensali avessero lasciato parlare il cuore, tra ricordi, magari ripuliti da paure e risentimenti o da sordi rimpianti, e progetti, anche timidi o capati in aria, eppure aperti alla gaia speranza.
L’autentica umiltà vuole a volte il difficile mettersi al di sotto degli altri, assai spesso l’ancor più difficile stare loro alla pari.
Tempo fa mi capitò di scrivere alcuni pensieri, che rimuginavano per l’appunto tra stare più bassi, mettendosi allo stesso livello: mi sono ritornati in mente e pari, pari li ripropongo.
“Tutti avvertiamo nell’intimo lo stupore per il nostro originario essere e la suggestione del nostro laborioso, necessario divenire convintamente piccoli.
Francesco d’Assisi è stato il primo poeta nella nostra lingua; un cavaliere sognante nel suo innamoramento per madonna Povertà; l’uomo identificatosi totalmente con la preghiera e talmente con Cristo, fino a portarne le stimmate impresse nel suo corpo;… fu soprattutto e prima di tutto “frate minore”, cioè fratello di tutti, ma un gradino almeno al di sotto di tutti e, quando capitava, alla pari con il suo prossimo affamato e vergognoso. Questa profonda convinzione di doveroso servizio di amore lo ha spinto fino a baciare il lebbroso, perché lui, il lebbroso, è importante: è un misterioso, difficile, sofferto e sofferente dono di Dio. Il servizio esprime, per chiamarla così, la caritativa sudditanza; il bacio annulla le differenze.
Qui [eravamo all’Ospedalino Meyer, la domenica 9 ottobre 2011] si è tutti necessariamente piccoli, minori, perché quelli che contano sono i Bambini, dei quali abbiamo bisogno, perché ci stimolino, quasi ci obblighino a perfezionarci nelle nostre diverse professionalità, per adempiere ad un irrinunciabile e responsabile dovere verso di loro, che sono, di per sé, i soggetti di tutti i più ampi diritti.
Siamo piccoli quanti siamo genitori, parenti, amici: angustiati per il presente turbato e, a volte, per il futuro incerto di queste nostre creature, che hanno ricevuto il dono della vita e sono diventate il motivo che dà senso alla nostra stessa vita. Forse un po’ sempre e dovunque si è soltanto piccoli, ma qui di più, perché sentiamo che il nostro immenso amore non basta a colmare l’attesa dei cuori e andiamo alla ricerca del di più e del nuovo: nell’affetto, nello studio, nel giuoco, nell’arte, nella speranza, nella fantasia, nel canto e, talvolta, nel pianto.
O ci chiniamo verso di loro o li solleviamo in braccio: due sguardi umani devono incontrarsi sullo stesso piano, alla stessa altezza”.
Certamente non mancano momenti nei quali bisogna abbassarli gli occhi, nella consapevolezza di avere sbagliato; non dovrebbe però mai succedere che altri occhi squadrino dall’alto in basso per dominare o condannare; gli occhi del perdono offerto dovrebbero permettere di incrociarsi con quelli umiliati e schivi del perdonato.
Un brano dalla Lettera ad un Ministro di S. Francesco è particolarmente significativo in proposito: leggiamo.
“E in questo voglio conoscere se tu ami il Signore ed ami me servo suo e tuo, se farai questo, e cioè: che non ci sia mai alcun frate al mondo, che abbia peccato quanto poteva peccare, il quale, dopo aver visto i tuoi occhi, se ne torni via senza il tuo perdono misericordioso, se egli lo chiede; e se non chiedesse misericordia, chiedi tu a lui se vuole misericordia. E se, in seguito, mille volte peccasse davanti ai tuoi occhi, amalo più di me per questo: che tu possa attrarlo al Signore; ed abbi sempre misericordia di tali fratelli”.
Note
(1) Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, XXXVIII, 62
(2) o. c., I, 283; II, 110.
(3) Pellegrino Artusi, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, 1. brodo