In questi ultimi giorni in Europa stiamo sperimentando un’esperienza nuova, almeno per le persone nate dopo gli anni quaranta del ‘900, quella della guerra. Non è proprio al centro del continente europeo ma alle porte, sul pianerottolo di casa: quella tra Russia e Ucraina. In precedenza c’era stata la guerra dei Balcani, che non faceva così paura non essendo coinvolta una potenza nucleare come la Russia. Più lontano nel tempo, la storia ci narra dell’invasione da parte delle truppe dell’Urss, dell’Ungheria e della Cecoslovacchia, ma nelle generazioni più giovani non c’è ricordo di questi eventi. Oggi, dopo quasi ottant’anni di pace dalla fine della “Grande Guerra”, si riaffaccia lo spettro della devastazione, dell’odio tra i popoli, degli innocenti uccisi senza colpa alcuna. Si stanno moltiplicando gli appelli e le preghiere per la pace, tutto il mondo diplomatico si sta muovendo per cercare una soluzione. Una cosa tanto preziosa come la pace tra le nazioni, forse data per scontata dalla società dell’occidente dove regna il benessere e non c’è ricordo nelle nuove generazioni della fame, delle deportazioni e di sofferenza alcuna dovuta ai combattimenti militari, si scopre improvvisamente quanto sia necessaria. Solo adesso però che viene minacciata o, addirittura, a mancare.
Ma la pace vissuta nella nostra quotidianità si può definirla veramente tale? I notiziari che hanno caratterizzato gli ultimi anni delle nostre società, ricche di beni materiali, forse descrivevano un’altra realtà: si parlava (e si parla) di femminicidi, di baby-gang che terrorizzano interi quartieri delle città, di violenze e risse di gruppo nelle piazze e vie cittadine organizzate attraverso i social network. Forse la pace che pensavamo fosse consolidata non era veramente tale. La guerra era nelle nostre case, nei nostri cuori, senza avere il coraggio di dichiararlo. Potremo allungare la lista aggiungendoci le notizie sulla criminalità organizzata, la corruzione delle istituzioni, il narcotraffico, il dramma dei migranti, sia per mare sia per terra, e i campi di prigionia per essi in Libia, descritti al pari dei lager nazisti (dopo ottanta anni ancora si riscontrano tali situazioni), e ancora molto altro. Allora capiamo che la pace, quella vera, è ancora tutta da costruire.
Una giovane ebrea olandese di nome Esther (nota con il diminutivo di Etty) Hillesum, durante la seconda guerra mondiale scrisse un diario e svariate lettere, dove parla del suo vissuto quotidiano, riflette sull’esistenza dell’uomo e sulla fede. Prima di essere deportata ad Auschwitz nel 1943, dove trovò la morte, trascorse un periodo nel campo di transito di Westerbork (Olanda), condividendo la precarietà e il disagio di quella situazione con chi si trovava e arrivava in quel luogo; la quotidianità della vita nelle baracche; accogliendo anche con rassegnazione, per l’impotenza di poter aiutare, gli eventi delle partenze mensili dei treni con destinazione Polonia. Nel campo di transito e da notizie che le arrivavano dal mondo esterno portate dai nuovi arrivati, rastrellati in tutta la nazione, Etty apprende che ci sia un gran desiderio nelle persone di mettersi alle spalle quanto stava succedendo nel mondo intero e in particolare al popolo ebraico. Contrariata dal questo fatto, così scrive in una lettera A due sorelle dell’Aia. Amsterdam, fine dicembre 1942:
«è vero, accadono cose che un tempo la nostra ragione non avrebbe creduto possibili, ma può darsi che in noi risiedano organi altri dalla ragione, organi che un tempo ignoravamo e che forse hanno la capacità di arginare quelle realtà sconcertanti. Io credo che per ogni accadimento l’uomo possegga in sé un organo con cui elaborare quanto è successo.
Se faremo ritorno dai campi di prigionia, ovunque essi si trovino, traendo in salvo i nostri corpi e null’altro, sarà troppo poco. Il punto non è, infatti, conservare la propria vita a tutti i costi, ma come la si conserva. A volte penso che ogni nuova situazione, buona o cattiva, possa arricchire l’uomo di una nuova consapevolezza. E se voltiamo le spalle alle dure realtà che siamo irrevocabilmente costretti ad affrontare, se manchiamo di riservare loro un posto nelle nostre teste e nei nostri cuori, così che abbiano modo di decantare e mutare in dati di fatto, guardando ai quali possiamo crescere e ricavare un significato, allora la nostra non sarà una generazione vitale.»
«A partire dai campi stessi dovranno irraggiarsi nuovi pensieri; nuove consapevolezze dovranno portare chiarezza oltre i nostri recinti di filo spinato e ricongiungersi a quelle che chi è fuori è chiamato a conquistare con altrettanta pena e in circostanze che poco a poco si fanno quasi altrettanto difficili. Allora, su una base comune di ricerca genuina di risposte che facciano luce su tutti questi eventi arcani, la vita sbandata potrà forse fare un cauto passo avanti.
Ed ecco perché a me sembrava un grave pericolo sentir ripetere ogni volta: “Non vogliamo pensare, non vogliamo provare nulla, la cosa migliore di fronte a questa tragedia è l’indifferenza”. Come se il dolore – quale che sia la forma in cui ci si presenta – non fosse anch’esso parte dell’esistenza umana.» (Due lettere da Westerbork, Castelvecchi 2014, p.36-37)
Questo è di grande insegnamento per l’uomo di ogni tempo e soprattutto per noi, figli della postmodernità, per i quali vige la legge del “tutto e subito”, del piacere immediato, del rifiuto categorico di ciò che la vita può presentarci da vivere contrario ai nostri progetti personalistici, pensando troppo spesso in modo egoistico ai nostri bisogni, anche se effimeri, allontanando da noi anche solo l’idea di ciò che si può avvertire come sacrificio, fatica, dolore, abbandono o, addirittura, come morte. Gli eventi che stanno caratterizzando la storia dell’Europa in questi giorni, ci devono spingere ad acquisire una nuova coscienza, una diversa prospettiva, a crescere come umanità e non solo come singolo, in maniera individualistica.
La giovane scrittrice olandese, pur nella tragedia che stava vivendo, non si tira indietro, non lascia spazio alla disperazione, ma apre la mente e il cuore alla riflessione, alla condivisione e all’accoglienza: delle sue fragilità; delle sorti del suo popolo, pur constatando i limiti umani di ogni singolo membro ma della cui appartenenza e destino ne prende piena consapevolezza; della sua fede, attenta e piena di domande; del suo rapporto vitale e mai scontato con Dio, al quale si affida pur non comprendendone pienamente l’agire, intravedendo però, nel fondo di quel tunnel apparentemente cieco nel quale è precipitata l’umanità, una via d’uscita, una speranza che le apre un nuovo orizzonte di senso, di comprensione, di vita nuova. Speranza e vita attinta dalla storia del suo popolo e gettata verso il futuro, oltre la sua generazione; diventando, in tal modo, seme, germoglio, atto generativo per una nuova umanità:
«Ci si avvede, infine, che non basta essere politici competenti o artisti dotati; nei momenti di maggior bisogno la vita richiede ben altro. Sì, è vero: siamo messi alla prova nei nostri valori ultimi di esseri umani.»
«Questo è oltretutto un resoconto assai parziale; potrei figurarmene un altro più carico di odio, d’amarezza e di ribellione. Ma la ribellione che nasce solo nel momento in cui la miseria ci tocca in prima persona non è vera ribellione e non potrà mai dare buoni frutti. E l’assenza d’odio non implica di per sé l’assenza di un elementare sdegno morale.
So che chi odia ha motivi fondati per farlo, ma perché dovremmo sempre scegliere la via più facile e a buon mercato? Laggiù ho sperimentato sulla mia pelle che ogni nuovo atomo d’odio rende il mondo più inospitale di quanto già non sia.
Credo anche – forse ingenuamente, ma con ostinazione – che questa terra potrà tornare a essere un poco più vivibile solo grazie a quell’amore di cui scrisse l’ebreo Paolo ai Corinzi nel tredicesimo capitolo della sua prima lettera.» (Idem p.44)
«Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio», siamo pieni di dubbi, incertezze e domande che non trovano risposte soddisfacenti. Verrà il giorno, non necessariamente quello della morte, che succederà qualcosa di particolare, un fatto nel quale si rivelerà un’evidenza, e allora vedremo le cose per quello che sono, si apriranno i nostri occhi interiori e vedremo la realtà in modo totalmente nuovo, come se la scorgessimo per la prima volta, faccia a faccia. Prenderemo coscienza di qualcosa che ci farà crescere nella consapevolezza. «Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto», amerò come anch’io sono amato. Fatte certe esperienze si diventa più concreti, si cerca la sostanza scartando i fronzoli superflui. Così alla fine rimarranno tre cose, quelle essenziali: la fede, la speranza e l’amore. E ci renderemo conto che la più grande di tutte, quella che non avrà mai fine e che ci connota come esseri umani rendendoci veramente tali, è l’amore. (liberamente da 1Cor 13)
Solo così edificheremo veramente la pace, quella durevole, quella che ha sede nei cuori rappacificati degli uomini. Da qui poi potrà sgorgare pura, limpida e stabile, come sorgente per i popoli.