Molte volte torna in gioco il concetto di «consacrazione», che assume diverse accezioni, per quanto tutte riconducibili al rapporto con il mistero divino. Si tratta di un termine e di un concetto diffuso nella fenomenologia religiosa di ogni tempo e di ogni cultura. L’atto di consacrazione è considerato la separazione di una realtà mondana da tutto quanto appartiene al mondo, per collocarla in una dimensione che appartiene al divino. esemplificativo è l’aggettivo con cui si indica la realtà mondana che rimane tale senza essere inserita nel mondo divino: si tratta di realtà profane, dall’essere pro-fanum, «davanti al tempio» e quindi fuori del divino. Tutto questo a livello antropologico. Ma non riesce a spiegare del tutto la dimensione cristiana della consacrazione. Anzi, questa radice antropologica rischia di oscurarla. In effetti il mistero di Cristo accade tra continuità, discontinuità e compimento sia verso la realtà creazionale che la logica del Primo Patto.
In continuità con la visione antropologica e giudaica, punto discriminante è il soggetto dell’azione di consacrazione. Talvolta è la persona umana che si consacra a Dio o consacra a lui cose, tempo e azioni. Ma nella prospettiva della Rivelazione spesso è Dio che consacra a sé stesso, separando dal resto del mondo profano. Così Dio sceglie Israele perché sia per lui un popolo consacrato, una nazione santa (Es 20), all’interno della quale compaiono figure di consacrati, dapprima la stirpe regale, poi la classe sacerdotale.
Nell’evento del battesimo nel Giordano, Gesù stesso appare consacrato nello Spirito per la missione affidatagli dal Padre. E dall’effusione dello Spirito di Pentecoste anche la Chiesa si mostra come popolo di consacrati al Signore.