La solennità dell’Immacolata concezione della Vergine Maria è stata una festa liturgica, largamente diffusa, prima ancora di diventare oggetto di dibattito teologico, fino ad essere proposta come contenuto normativo di fede per la Chiesa cattolica da papa Pio IX, l’otto dicembre del 1954. Anche le apparizioni di Lourdes a Bernardette Soubirous sono state riconosciute autentiche dalla chiesa attraverso la loro memoria liturgica dell’undici febbraio. Ancora una volta, la liturgia si mostra maestra di fede per il popolo di Dio. In questa direzione intende muoversi la mia riflessione partendo da un dato «liturgico» per giungere ad una comprensione teologico-spirituale del mistero di Maria e della chiesa, che siamo noi.
La preghiera dell’Ave Maria non è la più antica che sia stata formulata, come la narrazione dell’annuncio a Maria non è la prima pagina che sia stata scritta su di lei nel Nuovo Testamento. Questa si deve a Paolo che afferma come «quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare quelli che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli» (Gal 4,4-5). Senza essere indicata per nome, Maria è inserita in un progetto divino per il quale, liberati dalla legge, possiamo vivere nella condizione di figli di Dio. Alla sua funzione materna si riannoda la più antica preghiera a lei rivolta: «Sotto la tua protezione, cerchiamo rifugio, santa Madre di Dio. Non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, ma liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta».
Tuttavia, la più comune invocazione verso di lei è quell’Ave Maria, così paradigmatica per ogni preghiera, perché si fonda sulla Parola di Dio che, raccolta nella fede (la prima parte), diventa feconda in una Parola della Chiesa (la seconda parte). Dagli incipit delle due parti, raccolgo due termini decisivi per comprendere il senso della solennità di oggi: l’angelo saluta Maria come la «piena di grazia»; la Chiesa la professa «santa».
Nel Vangelo, il termine greco per «piena di grazia» è kecharitômenê, dalla sfumatura passiva, con la quale si mostra la diffusione di grazia su Maria e, al tempo stesso, un’accoglienza già avvenuta da parte di lei. L’angelo continua affermando: «il Signore è con te». L’unica modalità con la quale avviene la comunicazione della grazia è la comunione con il Signore, con la sua santità. Per questa comunione vitale Maria può essere chiamata «santa», come l’ha indicata la grande Tradizione ecclesiale, fin dall’attributo orientale di «tutta santa», la Panaghia. Con questo appellativo la chiesa rilegge la Parola di Dio, in modo normativo per la fede e la sua comprensione, facendolo dipendere da quanto espresso nel saluto dell’angelo.
Per essere espliciti, la santità è attributo di Dio e solo di Dio. Lui solo è il Santo, come proclamano i serafini intorno a lui nella visione di Isaia (Is 6,3), come proclama la chiesa nella liturgia eucaristica. Tra le creature, solo di Gesù si può affermare una santità propria, riconosciuta dagli stessi spiriti impuri, come quello cacciato dalla sinagoga di Cafarnao, che grida: «io so chi tu sei: il santo di Dio» (Mc 1,24). Con una ripetizione ridondante abbiamo che Dio, il Padre santo, attraverso il Figlio, il santo di Dio, comunica la sua santità attraverso l’unione trasformante, opera dello Spirito santo. Ma la santità resta sempre e comunque di Dio, non diventa mai possesso della creatura: rimane un dono, anzi una donazione, un’azione che perdona i peccati e trasforma nell’immagine del Figlio.
Questo dinamismo accade anche in Maria. La sua singolarità per grazia consiste nell’essere recettiva verso la donazione di santità, fin dal suo concepimento. Lo è stata, lo è e lo sarà. Perché l’unione trasformante da parte della grazia è dinamica, in una progressione escatologica: la creatura non entra mai in possesso della santità, ma resta sempre recettiva verso questo dono.
Maria è salutata come kecharitômenê dall’angelo perché destinata alla maternità di Gesù, il Figlio eterno che entra nella storia corporalmente attraverso il sì di Maria, pronunciato nella fede. La sua maternità nella fede è fondamento della singolarità e di ogni altro suo privilegio. In questo Maria è per noi modello e madre. È modello perché indica come siamo chiamati ad essere aperti al dono di Dio, modello nella sua partecipazione di fede a Dio che comunica la sua grazia. Al tempo stesso è per noi madre in quanto mostra l’indisponibilità verso la grazia di Dio. Colei/colui che viene generata/o non ha alcun possesso verso chi l’ha generata/o … non ha altro che riconoscenza, da trasformare in rendimento di grazie.