Nel biglietto a Filemone, l’apostolo Paolo si presenta come prigioniero di Gesù Cristo per chiedere a Filemone un atteggiamento simile nei confronti dello schiavo Onesimo, rifugiatosi presso l’apostolo. Paolo lo prega per quello che afferma essere suo figlio, generato in catene, tanto da essere diventato il suo stesso cuore.
Per parlare della relazione con coloro che hanno ricevuto da lui l’annuncio del Vangelo. l’apostolo Paolo predilige l’immagine paterna o materna. Sceglie quindi come unità di misura del suo ministero il rapporto antropologico che fonda l’identità e la crescita di ciascuno, quello tra genitori e figli (cfr. 1Ts 2,7; Gal 4,19), e parla della realtà della sua paternità. Paolo, infatti, nelle sue lettere, rivendica di essere non solo fondatore di comunità o maestro dei credenti, ma anche «padre» nel senso più pregnante del termine. Tale realtà, che si colloca su un piano non biologico ma spirituale, non è tanto conseguenza di un particolare incarico, quanto piuttosto di una vita di unione feconda con Cristo. Nella prospettiva paolina come un uomo e una donna unendosi generano una nuova vita, così la creatura che si unisce a Cristo, scegliendolo al di sopra di tutto, genera figli alla vita di fede. Ai Corinzi Paolo dice infatti: «Potreste avere anche diecimila pedagoghi Cristo, ma non certo molti padri; io invece vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il Vangelo» (1Cor 4,15). Nella prima lettera ai Corinzi, lo strumento di questa nascita e figliolanza spirituale è «il Vangelo», mentre nella lettera a Filemone sono «le catene». I due aspetti in realtà coincidono, perché le catene di cui parla Paolo sono le catene che porta a causa del Vangelo (v. 13). È l’annuncio del Vangelo che apre questa via di fecondità spirituale. Chi annuncia il Vangelo attraverso il seme della parola, ricrea i cuori e permette l’instaurarsi di rapporti che vanno oltre i vincoli di sangue, per formare quella realtà di grazia che è la famiglia spirituale (R. Manes, Lettera a Tito. Lettera a Filemone, San Paolo, 85-86).
Oggi è diventato essenziale ribadire con forza come queste relazioni paterne e materne si giocano e si debbano giocare sul registro della libertà. Annunciando il Vangelo si genera nella libertà in Cristo. Troppe volte si è strumentalizzato l’annuncio per fare violenza alle coscienze, incatenando gli altri alle nostre persone di ministri della Parola. In Cristo, non si genera per unire a se stessi, ma per affidare a Cristo. Si genera nella prospettiva ben chiara di non rendere prigioniere le persone, ma libere nello Spirito. E se deve esserci una prigionia comune, se devono esserci delle catene condivise, queste non possono essere altro che in Cristo: lasciarsi incatenare dalla sua Parola, che non è incatenata.