Nel capitolo 5 della 2Corinti Paolo continua il discorso sul rinnovamento esistenziale e profondamente intimo che è stato innescato dalla novità dell’evento Cristo. La morte non appare più come la fine dell’esistenza umana, ma si prospetta qualcosa che le va oltre, per quanto la precisazione di questa realtà non sia né facile né definitiva. Prima di tutto le immagini dell’esilio riferite alla vita nel corpo mettono in questione la verità dell’essere in Cristo, preciso dono battesimale. Se inquanto credenti siamo stati inseriti in Cristo, battezzati nella sua morte (cf Rm 6), come possiamo essere in esilio lontano dal Signore (2Cor 5,6)? Si prospetta in questo brano un pensiero preciso che aiuta la comprensione della nostra vita nella fede e nella speranza cristiane.
Il Cristo risorto dimora nei cieli, secondo un’espressione metaforica locale che cerca di mostrare la presenza pneumatica di Cristo, il suo essere ormai «corporalmente» e totalmente nello Spirito del Padre. Il credente, nella sua vita terrena, è certamente unito a Cristo, ma non così come spera di esserlo con lui dopo la morte. La nostra speranza è diretta ad una comunione con Cristo che ci coinvolga pienamente, mentre nel presente di questa vita vi è una distanza espressa con una metafora spaziale. Ma la distanza non è destinata a diventare negazione con la morte, anzi proprio allora sarà colmata! Per questo dall’immagine dell’esilio si passa alla convinzione di fede che oltre la morte il credente sarà ammesso alla presenza del Signore.
Anche qui abbiamo una metafora locale. Essere alla presenza del Signore vuol dire che il processo di trasformazione attraverso la visione (e non più solo la fede) condurrà alla «nuova creazione», per la quale godremo di una nuova forma di esistenza personale in virtù della risurrezione. In ragione di questo speranza nasce spontaneamente nel cuore del credente il desiderio di una vita secondo la logica del Vangelo e dell’amore gratuito (2Cor 5,9).