Le Celle di Cortona, Uscio della cella di san Francesco, particolare.
Stupore: il profumo della povertà riempie il vuoto!
Ci azzardiamo adesso a presentare qui di seguito la piccola elegia, di cui si è detto parecchio e qualcosa si dirà ancora, quasi illudendoci di poterci inserire in una minuscola piega di un mondo che fu, che non disse né tutto né sempre bene, ma che forse voleva stupire: magari per dimenticare un certo abituale e quotidiano squallore incombente e diffuso.
Prælaudatæ laudativæ elegiuncolæ, in honorem Sancti Patris Francisci piisimo exaratæ affectu,
accuratius emendati textus, necnon, quanto magis fieri potuit,
studiose in pristinam hypotheticam restituti integritatem, nova sedula editio.
Curavit Fr. Gulielmus Maria Florentinus, capuccinus l. i.
Florentiæ, ad Montem Ugonis,
in Sollemnitate Immaculatæ Conceptionis B. M. V., Seraphici Ordinis Patronæ ac Reginæ.
A. D. MMXXII
Jesus – Maria – Franciscus
Solve calceamenta de pedibus tuis: locus êm in quo stas terra sancta est.
Ad excolendam seraph.i P. S. F. cellam viatores invitat elegiuncola.
“Solve profanatæ vestigia turpia plantæ:
non est polluto terra premenda pede”,
cornigero intonuit tunc lingua Tonantis Apellæ,
cerneres igniti cum sacra monstra rubi.
Siste, viator, iter: non te miracula poscunt 5
Amramidæ, nec te mystica flamma vocat;
sed te seraphicis ardentia limina flammis:
turpia polluti tegmina solve pedis.
Turgida non strato laquearia iaspide fulgent,
Dædalea grandis non tenet arte tholus; 10
incola Bethlææ non hic asceta cavernæ
inter pantheras vixit et inter hydras.
Plusquam Dædaleo cellam molimine, gyro
parvam paupertas struxit et arte rudem;
incola transfixi decoratus stigmate Christi 15
et paupertatis sponsus amorque fuit.
Oh, quæ seraphico suspiria pectore fudit;
qua prece, queis lacrimis incaluere lares!
Oh, quoties sitiens, ut cervus anhelat ad undas,
e Salvatoris fontibus hausit aquas! 20
Oh, quoties dixit: “Circum stipate rosetis,
cingite me malis, cingite me violis!
Parce: sat est, Jesu, satis est, dulcissime Jesu;
parce: meum nimio languet amore latus!”.
Non ego, Mæoniæ si sint mihi flumina linguæ 25
et fluet e labiis nectar ut Hybla meis,
non ego dilecti, qui lilia pascitur inter,
oscula, complexus dinumerare queam.
Quos halant hæc tecta săcri fateantur odores
et non Panchæis vivida cella plagis. 30
Nunc gressus ducas: cellam miraberis, hospes;
talis adhuc domus est, incola qualis erat.
Laus Deo.
C’era già successo una quarantina d’anni fa, quando c’eravamo provati a rileggere quella benedetta elegia e praticamente tutto era finito allora in un cassetto, che ci venissero in mente alcune parole del Manzoni:
“Chiunque, senza esser pregato, s’intromette a rifar l’opera altrui, s’espone a rendere uno stretto conto della sua, e ne contrae in certo modo l’obbligazione: è questa una regola di fatto e di diritto, alla quale non pretendiam punto di sottrarci(1)”.
Da una parte, infatti, la situazione è ora più o meno la stessa di prima, solo che, oltre ad aver riguardato alcuni punti per giungere alla lettura del testo come ora viene sopra offerto, abbiamo anche voluto un po’ analiticamente soffermarci a considerare la precedente pubblicazione a stampa, riportata nell’ultimo articolo in proposito, e unica per quanto ci risulta, cosicché quanto proponiamo di diverso nella trascrizione, di nuovo nei rispettivi tentativi di integrazione, speriamo proprio di averlo in parte già sufficientemente motivato e di continuare a chiarirlo adeguatamente nel seguito.
A quanto abbiamo anticipato su nomi di persone e di luoghi di non scontata immediata comprensione per molteplici motivi, solo in parte elencati, sembrerebbe opportuno fornire anche la cosiddetta “costruzione diretta”, che potrebbe aiutare a muoversi in uno stile un po’ barocco, come un po’ barocchi sono i paragoni costruiti col metodo per assurdo: sarà il prossimo compito che ci prefiggiamo.
Questo nostro insistere su quel un po’ non è una generica attenuazione di valutazione o una sfumatura linguistica, in quanto certi elementi in sé sono autenticamente classici, sia pur piegati verso l’evocazione di un meraviglioso fatuo, fatto di vuoto.
Prendiamo, ad esempio, “i profumi dei litorali panchei”, come ci vien fatto di tradurre una parte del terzultimo verso. Intanto la Regia Parnassi(2) non presenta direttamente la voce “Panchæa” o qualcosa di simile (fin dalla prima edizione si salta dal “Panax”, a piè di pag. 720, al “Pando”, in cima a pag. 721); seguitando caparbiamente a cercare, si può trovare la fatidica parola a pag. 115 della stessa edizione, però in obliquo, ossia di seguito alla voce “Arabia”, considerata come fosse un sinonimo di quest’ultima, stilata in quattro diverse grafie e, conseguentemente, con diversa prosodia: “SYN. Panchæa, Panchāĭa, Panchaja, Panchæĭa”: non più, dunque, la paradisiaca isola di Evemero, anche se, tuttavia, in entrambi i casi non cambia l’entusiastico apprezzamento per l’indiscussa varietà e intensità di pregiati aromi che ne promanano e che fanno di Panchea piuttosto un sinonimo di quei soavi, ineguagliabili e, a maggior ragione, insuperabili olezzi: un’antonomasia.
Seguitando la ricerca, si trova che quel territorio (uno dei due: Arabia o…. Socotra?) è preso in considerazione da Virgilio, nel suo elogio all’Italia, quando scrive(3):
“Sed neque Medorum silvae ditissima terra,
nec pulcher Ganges atque auro turbidus Hermus
laudibus Italiae certent, non Bactra neque Indi
totaque turiferis Panchaia pinguis arenis”.
dove il “degli altri poeti onore e lume(4)” viene a dire che “anche tutta la Panchaia ricca di terre produttrici d’incenso” non può competere con l’Italia appunto: verso di classica snellezza su di un classico profumo, un’aerea pittura, prima ancora che un’olfattiva sensazione, a tratteggio di un luogo reale di sogno.
Prima di riprendere il filo, non ci poteva mancare un accenno al barocco di don Ferrante insieme alla capacità interpretativa e al senso del limite posseduti dal cardinal Federigo Borromeo:
«Bene,» disse Federigo, letto che ebbe, e ricavato il sugo del senso da’ fiori di don Ferrante. Conosceva quella casa quanto bastasse per esser certo che Lucia c’era invitata con buona intenzione, e che lì sarebbe sicura dall’insidie e dalla violenza del suo persecutore. Che concetto avesse della testa di donna Prassede, non n’abbiam notizia positiva. Probabilmente, non era quella la persona che avrebbe scelta a un tal intento; ma, come abbiam detto o fatto intendere altrove, non era suo costume di disfar le cose che non toccavano a lui, per rifarle meglio(5).
(5. continua)
Note
(*) Gv 20,8c
(1) Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, Intr., 7.
(2) Regia Parnassi: Dizionario prosodico di parole latine; prima pubblicazione a Parigi nel 1678. Contiene e completa il materiale di precedenti dizionari analoghi. Opera nata nell’ambiente dei gesuiti parigini di autore non sicuramente identificabile: forse il gesuita ed umanista F. Vavasseur. Seguita da numerose riedizioni ampliate ed emendate: assai nota quella del 1832, curata da I. Gioazzini.
(3) Publii Vergilii Maronis, Georgicon Libri quatuor: II, 136–139. I versi 138 e 139 si trovano a pag. 227 dell’opera di
Lamberti Daneau, Geographiae poeticae, id est, universae terrae descriptionis ex optimis ac vetustissimis quibusque Latinis Poetis libri IV, Apud Iacobum Stœr, 1580. Vedasi pure a pag. 227
Petri ab Area Baudoza Cestii, Orbis terrarum synoptica epitome una cum geographia poetica, excudebat Iacobus Stœr, 1588.
(4) Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, Canto I, 82.
(5) Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, XXV, 26.