Questa pagina del Vangelo intreccia un discorso su Dio e un discorso sull’uomo: teologia e antropologia s’innestano l’una sull’altra. L’intreccio appartiene sia alla parabola stessa che alla sua cornice: all’inizio l’evangelista offre la chiave di lettura e alla fine Gesù svela il pensiero di Dio Padre.
La parabola è tanto piccola quanto densa, efficace nel suo svolgimento. Riprende temi tipici della narrazione lucana sulla persona e lo stile di Gesù: la presenza occasionale ma autentica di un tono polemico verso categorie religiose del tempo, l’atteggiamento costante di benevolenza verso i pubblicani, l’affermazione decisa del ribaltamento escatologico rispetto alla situazione della vita terrena. Molti esegeti concordano nel definire tutto questo come «la situazione di Gesù».
Il contrasto tra i due personaggi si colloca in un’ambientazione spaziale: entrambi «salgono al tempio» per pregare, ma solo per uno il «ritorno a casa» avviene nella riconciliazione (non solo con Dio).
La figura del fariseo in preghiera è presentata nel suo narcisismo religioso, gonfio di orgoglio illusorio. È capace di guardare sé stesso solo attraverso un confronto con un altro da disprezzare per motivi religiosi e sociali. È una situazione falsa, solo apparentemente salda davanti a Dio: «stando in piedi, nel proprio intimo». Nonostante la formalità della preghiera, non si sta rivolgendo a Dio, ma a se stesso. Viene da pensare che si tratti di un atteggiamento ripetuto spesso nel tentativo vano di confermare se stesso attraverso il confronto con altri da disprezzare e umiliare. Non è la sua coscienza (come apertura alla voce di Dio) a determinare la vita, ma la vita (come realtà esistenziale della sua classe religiosa e sociale) che determina la sua coscienza.
Il pubblicano, invece, si mantiene «a distanza». A distanza da chi? Il termine può essere applicato sia a Dio come ad altri devoti presenti nel cortile del tempio, ma verso i quali egli non ha alcun giudizio. È fecondo mantenere entrambe le interpretazioni. La distanza dagli altri mostra il pubblicano in una preghiera sincera, che riflette su se stesso, solo davanti a Dio. Ed è la distanza nei confronti di Dio che gli permette di contemplarne il volto: nella tradizione ebraica e cristiana conservare la distanza vuol dire custodire la possibilità di un incontro o di un dialogo. Per godere del volto dell’altro, dell’Altro, occorre una distanza adeguata.
Così il pubblicano torna a casa giustificato, cioè ristabilito nella giustizia secondo Dio, proprio quella nella quale il fariseo riteneva di essere. La casa è il luogo delle relazioni umane più intime, più vere, dove il pubblicano ritrova se stesso. La figura del fariseo rivela come tutti coloro che, spinti da vanità superba, hanno una visione di se stessi inconsistente, al tempo stesso hanno una falsa idea di Dio. La figura del pubblicano rinvia a coloro che, riflettendo su se stessi davanti a Dio, manifestano con umiltà quello che sono, permettendo a Dio di manifestare se stesso. Il pubblicano torna a casa trasformato, capace di vivere secondo Dio le relazioni di cui è intrecciata la sua vita quotidiana. Discorso su Dio e discorso sull’uomo s’intrecciano, perché una sola è la vita, attraverso la quale siamo chiamati a godere del volto singolare di chi ci sta accanto, in quella distanza che unisce in comunione nel rispetto dell’alterità.