Il capitolo 16 del Vangelo secondo Luca è costruito nel confronto tra la parabola iniziale dell’amministratore infedele (Lc 16,1-13), letta domenica scorsa, e quella finale del ricco e di Lazzaro (Lc 16,19-30), che ascoltiamo in questa domenica. Se la prima era indirizzata ai discepoli, questa è rivolta ai farisei, descritti come «amanti del denaro» (Lc 16,14). La narrazione presenta due figure i cui cammini s’incrociano solamente nel momento della morte (v. 22). Per il resto le loro esistenze appaiono senza relazione: in vita l’indifferenza del cosiddetto ricco epulone esclude ed emargina il povero Lazzaro; dopo morte una «grande voragine» invalicabile non permette alcuna comunicazione. La descrizione dello stile di vita del ricco è precisa ed essenziale. La porpora prendeva nome dal colore ricavato da conchiglie marine ed era ritenuto il tessuto più prezioso, destinato a re e imperatori. Il bisso era un lino molto raffinato di provenienza orientale. Si aggiunge anche un quotidiano festeggiare nei godimenti: si usa il medesimo verbo della parabola sull’uomo che pensa di godersi le proprie ricchezze, senza pensare che proprio in quel momento gli verrà richiesta la vita (Lc 12,19). La situazione del povero viene descritta con maggiore ampiezza di particolari. Ha un nome proprio, che significa «Dio viene in aiuto», segno di un futuro che rovescerà la situazione. Al momento appare come un relitto sballottato dai flutti del destino, piagato nel corpo. Alla sazietà del ricco si contrappone il suo desiderio di sfamarsi con quanto «cadeva dalla tavola»: si tratta delle molliche di pane, con le quali ci si puliva le mani durante il pasto e venivano buttate per terra. Che i cani, ritenuti animali impuri, lecchino le sue ferite è un ulteriore particolare di emarginazione. La morte rovescia la situazione di entrambi. La narrazione, adesso, si sposta sulla vicenda del ricco, condannato ai tormenti negli inferi, mentre Lazzaro viene condotto nel seno di Abramo, luogo di consolazione definitiva. Il ricco entra in dialogo proprio con Abramo e gli rivolge tre richieste, trovandosi sempre di fronte a un rifiuto. Molti esegeti ritengono che la parabola originaria terminasse con la prima richiesta del ricco: che Lazzaro intinga un dito nell’acqua fresca per rinfrescargli appena la lingua bruciata dall’arsura. Ma nemmeno questo gesto minimo di compassione è possibile: lo impedisce la situazione oggettiva che viene a crearsi dopo la morte. Siamo di fronte ad un ribaltamento radicale che fa intuire dietro le precedenti situazioni esistenziali una responsabilità colpevole nell’uomo ricco. Perché adesso si trova in uno stato di condanna? Per la sua indifferenza verso il povero? Certamente. Semplicemente per le sue ricchezze? Non è fuori luogo ritenere come persino lo stesso possesso e godimento delle ricchezze sia motivo di condanna.
Inascoltato nella prima richiesta, il ricco prova a chiedere qualcosa in favore dei fratelli ancora vivi: che Lazzaro vada ad avvisarli. In queste due successive domande vi sono accenni simbolici. Il numero cinque dei fratelli rinvia ai libri della Legge, che dovrebbero essere già sufficienti (cf Lc 16,28-29), mentre l’accenno alla risurrezione dei morti era ben comprensibile nell’orizzonte della prima comunità cristiana (cf Lc 16,31).
In queste due nuove richieste, tuttavia, il punto fondamentale è che sono coinvolte persone ancora in vita, i cinque fratelli del ricco. Allora, con queste due richieste aggiunte, la parabola ha una svolta. Da narrazione che ammonisce severamente, mostrando il destino finale che rovescia la situazione dei due personaggi, diventa un appello perché ci abbandoniamo alla volontà di Dio attraverso l’osservanza della Legge. Non sono i segni che spingono alla vera conversione. Non sono i miracoli o i prodigi straordinari che fanno cambiare vita. Per chi ha un cuore semplice e umile è sufficiente l’invito di Dio ad osservare la sua legge e avere compassione verso chi è nel bisogno.
E allora potremmo aggiungere la speranza in una compassione che non ha limiti. C’è una poesia di R. Kipling, scritta nel 1892: Gunga Din. È stata trasformata in canzone da Jim Croce nel 1966 (e prima ancora in un famoso film del 1939). Il testo parla di un uomo dell’India, arruolato nell’esercito coloniale inglese. È un portatore d’acqua, che sfida la morte per rifornire d’acqua i soldati, durante le battaglie. Alla fine, Gunga Din muore proprio per dissetare i compagni. Il soldato che lo ricorda immagina che anche dopo la morte, sceso negli inferi, troverà Gunga Din che «nella pelle di Lazzaro» gli darà un sorso d’acqua per dissetarsi. La canzone conduce la nostra speranza più in là della parabola evangelica: il povero Gunga Din, nuovo Lazzaro, è capace di offrire compassione oltre la morte. Una compassione senza limiti … e non dovremmo averla anche noi, finché siamo in vita?