Domenico Ghirlandaio, Adorazione dei Magi, 1485-1488,
Spedale degli Innocenti, Firenze
Particolare: S. Giovanni Evangelista presenta un fanciullo ferito alla Madonna
Lamed. In memoria æterna erit justus,
Mem. ab auditione mala non timebit. (Sal 112,6b-7a)
Il Comitato Etico Locale (CEL) del Meyer ebbe una volta, (un po’ meno d’una decina d’anni fa), a programmare un seminario che affrontasse il tema della comunicazione, sia relativamente alla diagnosi emersa, sia alla terapia conseguentemente applicabile. Tema sempre molto delicato, specialmente quando la diagnosi risulti infausta: comunicazione difficile da notificare ai familiari e, in qualche misura, da partecipare al paziente minorenne.
Un piccolo contributo, offerto a suo tempo, fu la relazione che riportiamo qui di seguito, avvertendo chi ci seguisse che abbiamo fatto delle aggiunte e che alcuni elementi possono già essere stati impiegati in precedenti articoli di questa rubrica, particolarmente a proposito di citazioni di frasi o di interi brani di Autori vari. Pensiamo però che ne derivi solo una parziale ripetizione, nel senso che, a parità di testo riferito, abbastanza diverso è il contesto generale presente.
Il tema, a suo tempo, fu volutamente affrontato specificamente proprio nel caso di previsione di esito infausto, dando un titolo che fosse conveniente, che invitasse a riflettere, prima ancora che sul significato, sul “suono”, per dir così, delle parole stesse usate per comporlo. Dunque, intitolammo: Comunicarsi una brutta notizia.
Quanto alla struttura letteraria possiamo iniziare spezzando il titolo in due parti: un quinario e un settenario, fusi, per iato, in un endecasillabo del tipo “a minore” (l’endecasillabo comincia dalla componente più corta, il quinario), “di settima” (perché, dopo la fusione, l’endecasillabo risultante ha un accento forte sulla settima sillaba):
Comunicarsi (quinario)
una brutta notizia (settenario);
Comunicarsi˽una brutta notizia (endecasillabo).
Si tratta così di un titolo che costituisce un verso dall’accentuazione rara e che insinua di per sé apprensione e affanno. Per sollevarci ad esempi illustri, Dante fa riferire da Virgilio che il suo pronto intervento in favore di lui, che gli ha gridato “miserere di me,…/ qual che tu, od ombra od omo certo!”(1),è stato voluto e sollecitato da parte di Beatrice, la quale ha fatto pressante urgenza, dicendo di temere
ch’io mi sia tardi al soccorso levata,(2)
a porgere una preghiera, si noti, una supplica rivolta ad una veneranda e mesta anima del limbo. Nella sua struttura si coglie immediatamente che si tratta di un verso del tipo sopra esaminato, mentre l’apprensione è manifestamente espressa dalle parole in quanto tali e, se si può dire, ancor più dal fatto che in affanno è nientemeno che un’anima beata: e quale Anima!
Il delicato compito affidato all’“anima cortese mantoana”(3) è graziosamente richiesto come fosse un grande favore personale, quasi implorando:
l’aiuta sì ch’i’ ne sia consolata(4).
Ancora in questo verso la stessa impostazione stilistica, salvo far ricorso al troncamento del quinario (i’ al posto di io), non verificandosi iato di collegamento con il settenario successivo, iniziante per consonante. Dal punto di vista poetico poi quel troncamento insinua come la sensazione di un respiro preso dopo un sospiro(5).
Passando ora al tema, questo breve intervento, a suo tempo, voleva schematicamente essere
un’anticipazione, che, a sua volta, sarebbe anche potuta essere
un collegamento e costituire, in un certo modo,
un complemento.
Anticipazione rispetto ad un ipotizzato successivo evento formativo promosso dal CEL, che dovrebbe affrontare la tematica del lutto, almeno nel senso dominante del termine, che, senza prescindere dall’accezione più ampia, si concentra sull’esito mortale, dove spesso si coniugano insieme il malinconico preannuncio dell’infausta notizia con il successivo triste accadimento.
Collegamento del presente incontro con un altro momento prossimo futuro, cui si faceva cenno, permettendo fin da ora di evidenziare una continuità di programmazione, accanto alla indiscussa rilevanza specifica dei singoli argomenti in seguito trattati.
Complemento a quanto sarà esposto in queste conversazioni, nel senso che, in uno schema logico, questo contributo viene a collocarsi, più che a mo’ di prefazione commendatizia o di riassuntiva introduzione, come il punto o capitolo “zero”, con una valenza universale per un verso e omissibile per un altro, perché vorrebbe esprimere un po’ di quel tanto che è, di natura sua e nello stesso tempo, chiaramente ovvio eppure assolutamente indispensabile.
(1. continua)
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Note
(1) Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, Canto I, 65.66
(2) o. c., Inferno, Canto II, 58
(3) o. c., Inferno, Canto II, 65
(4) o. c., Inferno, Canto II, 69
(5) Digressione. Inseriamo qui un’estemporanea nota sommaria, aggiuntiva rispetto all’economia originaria di quando fu steso questo articolo. Nel più volte citato Canto II dell’Inferno dantesco Virgilio, tra l’altro, riferisce il dialogo intercorso tra Beatrice e lui, a cui si accennava e nel quale appunto si collocano i due versi sopra analizzati. Sempre in quel Canto c’è un verso ancora, di più consueta struttura (“a minore”, con accenti sulla quarta e decima sillaba), ma che esprime in modo assoluto, molto più degli altri, il coinvolgimento affettivo ed emotivo di Beatrice: “gli occhi lucenti || lacrimando volse” (v. 116). Ne La Comedia Beatrice ricopre spesso il ruolo di chi intuisce in anticipo e poi risolve i vari dubbi di volta in volta insorgenti: dubbi di Dante, nel Paradiso, ciò che accade diverse volte; in questo Canto un dubbio, esplicitamente manifestato da Virgilio, perplesso per la discesa di uno spirito beato (dal terzo giro della candida rosa!) per andare “tra color che son sospesi” (cfr. v. 52). Questo ruolo, non unico, ma costantemente assunto e svolto, colloca Beatrice in una dimensione superiore e, forse, un po’ (si passi l’espressione decisamente impropria) d’una saputa, seppur cortese, “maestrina”. I suoi occhi lacrimanti, quelli la mettono su un piano accessibile e simpatico: verrebbe quasi fatto di pensare che, quanto a empatia, ci troviamo più a nostro agio nell’Inferno (in quello di Dante, ben s’intende!), che non altrove.
Nel Don Carlo di Verdi (su libretto di Joseph Méry & Camille du Locle, tratto dall’omonima tragedia di Friedrich Schiller; traduzione di Achille De Lauzières) Elisabetta di Valois, terza moglie per ragioni di stato di Filippo II di Spagna, rivolgendosi all’ombra del suocero Carlo V imperatore, canta (magari con la voce di Maria Callas):
Tu che le vanità
conoscesti del mondo
E godi nell’avel
d’un riposo profondo,
Se ancor si piange in cielo,
piangi sul mio dolor,
E il tuo col pianto mio
reca appiè del Signor.
Se stiamo a Dante e a quanto accennavamo prima, sì, si piange anche in cielo: un di meno di beatitudine lassù? Chissà: potrebbe essere. Quaggiù la carezza lieve e furtiva d’un mistico conforto, se nell’aldilà non una trasfigurata e un po’ algida santità, ma una mamma e un babbo sono in affanno, quando la loro creatura si accascia e sospira.