Chiesa dei santi Agostino e Monica a Casciago
“Carneades,… tibi sapiens non videtur?”
Qualcosa avendo già anticipato qua e là per non pretendere che uno, per farsi un’idea (se proprio se la vuol fare), si debba sorbire, tutto in una volta, un mezzo romanzo; qualcosa momentaneamente saltando per riprenderlo poi, dopo e insieme ad altri aneddoti, (magari curiosi, seppur non sempre completamente storicamente fondati); qualcosa raccapezzando da varie notizie sparse, per un doveroso senso di giustizia verso un personaggio che aveva detto e fatto dire di sé,… rieccoci a parlare di Carneade.
Carneade di Cirene (Cirene, 213 – Atene, 129 a. C.) fu un grande filosofo greco della corrente degli stoici, poi della scuola platonica, e fondatore della terza Accademia; fu anche capace oratore, sottile dialettico e maestro eccezionale.
Durante un viaggio di ambasceria a Roma da parte degli ateniesi (multati per avere saccheggiato Oropo) insieme a Critolao e Diogene di Babilonia, ebbe molto successo affermando che se i Romani avessero voluto essere giusti avrebbero dovuto restituire i loro possessi ed andarsene, ma in tal caso sarebbero stati stolti. In questo modo concluse che saggezza e giustizia non andavano d’accordo. Cicerone narra l’episodio nel terzo libro del De re publica, che riassume appunto i due famosi discorsi pro e contro la giustizia; riprese e discusse gli argomenti di Carneade in molte delle sue opere filosofiche.
Carneade si impegnò in una critica radicale dei fondamenti dei tre settori cui veniva suddivisa tradizionalmente la filosofia: logica e teoria della conoscenza, fisica, etica, mostrando la rispettiva fallibilità, sostituendo alla certezza la probabilità, quale unico obbiettivo raggiungibile nella ricerca. Rifiutò il concetto di causalità come fato, contraddicendo il concetto di causa antecedente, quello di causa antecedente ‘efficace’, (ossia tutte le cause efficaci sono antecedenti, ma non tutte le cause antecedenti sono efficaci, cioè cause intese in senso stretto). Riguardo all’etica abbiamo visto le considerazioni di Carneade sulla giustizia e questo è stato ripreso da tutti gli esponenti dello scetticismo moderno e viene considerato un’anticipazione del moderno positivismo giuridico. Carneade dimostra infatti che non esiste un diritto naturale e che le nozioni di giusto e di ingiusto sono variabili non solo da città a città, ma addirittura nella stessa città in tempi diversi e, infine, che fondamento del diritto è la forza.
In altre parole, il filosofo si domandò, come si può riuscire a conciliare le esigenze della prassi quotidiana con l’impossibilità di essere certi di qualsiasi cosa. Egli affermò che è necessaria l’introduzione del così detto “criterio del probabile”. L’uomo può individuare il comportamento da adottare di volta in volta, in base al grado di probabilità o di rappresentazione persuasiva derivata dall’esperienza. Ecco perché si pose in contrasto con l’impostazione dogmatica stoica. Carneade affermò che non è dato all’uomo di sapere alcunché con certezza assoluta, tuttavia ammise la necessità dell’azione e, conseguentemente, di un criterio di ragionevolezza o probabilità, in base al quale potersi regolare.
Figura quindi tutt’altro che secondaria, è diventato proverbiale come persona poco nota, dalla famosa domanda che si pone don Abbondio(1) che, nella sua stanza, sta leggendo un panegirico (presso gli antichi Romani, discorso celebrativo in onore di un personaggio illustre) in onore di san Carlo Borromeo, all’interno del quale viene citato il filosofo.
Ne scrive anche sant’Agostino nel dialogo Contra Academicos (l. I, c. III, n. 7)(2): “Tum Licentius: Carneades, inquit, tibi sapiens non videtur? Ego, ait [Trygetius], Græcus non sum, nescio Carneades iste qui fuerit” (Allora Licenzio: “Carneade, disse, non ti sembra un sapiente?”. “Io, disse [Trigezio], non sono greco: non so chi fosse codesto Carneade).
Chiedere perché il Manzoni tirò fuori il nome di quel “letteratone del tempo antico”, sembrerebbe forse una stranezza bell’e buona: eppure non è così. Accostiamo alle parole messe in bocca di don Abbondio quelle del dialogo di Agostino, sopra riportate: non c’è precisa coincidenza tra la domanda di don Abbondio: “Carneade! chi era costui?” e la frase di Agostino: “Non so chi fosse codesto Carneade”; ma il risultato non cambia: nessun dei due personaggi ne sa nulla.
«Il Manzoni aveva studiato il gran dottore africano, e ne fa fede la sua lettera al Poujoulat (Jean Joseph François), nella quale da par suo cerca di determinare dove precisamente sorgesse il celebre “Cassiacum”, dove Agostino si era ritirato con la madre, il figlio e gli altri amici, per prepararsi al battesimo (si tratterebbe di Casciago, nel varesotto). E notisi che il dialogo contra Academicos è opera nata dalla conversazione di Agostino e de’ suoi compagni durante il tranquillo soggiorno di Cassiaco. Non parrà dunque più strana, dopo queste considerazioni, l’ipotesi che il Manzoni, scrivendo i Promessi Sposi, ricordasse il “nescio Carneades iste qui fuerit”; e lo facesse dire al povero don Abbondio, come saggio della non troppo ampia cultura del clero d’allora» (Nino Tamassia, nel Giornale storico della letteratura italiana, volume XXI, pag. 182).
(4. continua)
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Note
(1) A. Manzoni, I Promessi Sposi, cap. VIII.
(2) Augustini Aurelii, Contra Academicos libri III.
LIBER PRIMUS
QUÆ LICENTIUS ET TRIGETIUS DE STUDIO SAPIENTIÆ DISPUTAVERINT
Tullii auctoritas inducitur.
3. 7. Quoniam te, inquit, video magnopere nos urgere, ut adversum invicem disputemus, quod te utiliter velle confido; quæro cur beatus esse non possit, qui verum quærit, etiamsi minime inveniat? Quia beatum, inquit Trygetius, volumus esse perfectum in omnibus sapientem. Qui autem adhuc quærit, perfectus non est. Hunc igitur quomodo asseras beatum, omnino non video. Et ille: Potest apud te, inquit, vincere auctoritas majorum? Non omnium, inquit Trygetius. Quorum tandem? Ille: Eorum scilicet, qui sapientes fuerunt. Tum Licentius: Carneades, inquit, tibi sapiens non videtur? Ego, ait, græcus non sum; nescio Carneades iste qui fuerit. Quid, inquit Licentius, de illo nostro Cicerone, quid tandem existimas? Hic cum diu tacuisset: Sapiens fuit, inquit. Et ille: Ergo ejus de hac re sententia habet apud te aliquid ponderis? Habet, inquit. Accipe igitur quæ sit, nam eam tibi excidisse arbitror. Placuit enim Ciceroni nostro, beatum esse qui veritatem investigat, etiamsi ad ejus inventionem non valeat pervenire. Ubi hoc, inquit, Cicero dixit? Et Licentius: Quis ignorat eum affirmasse vehementer, nihil ab homine percipi posse; nihilque remanere sapienti, nisi diligentissimam inquisitionem veritatis: propterea quia si incertis rebus esset assensus, etiam si fortasse veræ forent, liberari ab errore non posset? quæ maxima est culpa sapientis (Cicerone, framm. 101 t. A.). Quamobrem si et sapientem necessario beatum esse credendum est, et veritatis sola inquisitio perfectum sapientiæ munus est; quid dubitamus existimare beatam vitam, etiam per se ipsa investigatione veritatis posse contingere?
3. 7. «Dal momento che, dice, vedo che tu ci stimoli con insistenza al dibattito, e ho fiducia che tu lo voglia per il nostro vantaggio. chiedo dunque: perché non può esser beato chi cerca il vero anche se non lo raggiunge?». «Perché, rispose Trigezio, desideriamo che il filosofo, raggiunta la beatitudine, sia perfetto in tutto. Ora chi ancora cerca non è perfetto. Non vedo affatto dunque come tu lo possa considerare beato». E quegli: «Può da te essere accettata l’autorità dei predecessori?». «Non di tutti», rispose Trigezio. «E di quali allora?». «Di quelli soltanto che furono veri filosofi». Licenzio replicò: «Carneade non ti sembra un vero filosofo?». «Ma io non sono greco; non so chi sia codesto Carneade». E Licenzio: «E del nostro grande Cicerone che ne pensi?». Dopo un lungo silenzio Trigezio rispose: «Fu un vero filosofo». E quegli insisté: «La sua opinione ha per te autorità in materia?». «Sì». «Eccotela dunque, giacché penso che l’hai dimenticata. Il nostro Cicerone ritiene dunque che è felice chi ricerca la verità anche se non può giungere al suo possesso». «Ma dove, obiettò l’altro, Cicerone ha espresso tale opinione?». E Licenzio: «Ma chi ignora che Cicerone ha affermato con vigore che nulla si può apprendere con certezza dall’uomo e che unica competenza del filosofo è la ricerca, più diligente possibile, della verità? Ne è motivo che se si prestasse l’assenso a giudizi non certi, anche se per caso fossero veri, potrebbe non sfuggire l’errore ed esso è la maggiore colpa del filosofo (Cicerone, framm. 101 t. A.). E perciò se si deve ritenere che il filosofo non può non esser felice e che la sola ricerca della verità è il compito costitutivo del filosofare, non dovremmo ancor dubitare che la felicità può consistere anche nella sola ricerca della verità».