Una domanda rimasta senza risposta (per don Abbondio)
«“Carneade(1)! Chi era costui?” ruminava tra sé don Abbondio seduto sul suo seggiolone, in una stanza del piano superiore, con un libricciolo aperto davanti, quando Perpetua entrò a portargli l’imbasciata. “Carneade! questo nome mi par bene d’averlo letto o sentito; doveva essere un uomo di studio, un letteratone del tempo antico: è un nome di quelli; ma chi diavolo era costui?” Tanto il pover’uomo era lontano da prevedere che burrasca gli si addensasse sul capo!
Bisogna sapere che don Abbondio si dilettava di leggere un pochino ogni giorno; e un curato suo vicino, che aveva un po’ di libreria, gli prestava un libro dopo l’altro, il primo che gli veniva alle mani. Quello su cui meditava in quel momento don Abbondio, convalescente della febbre dello spavento, anzi più guarito (quanto alla febbre) che non volesse lasciar credere, era un panegirico(2) in onore di san Carlo, detto con molta enfasi, e udito con molta ammirazione nel duomo di Milano, due anni prima. Il santo v’era paragonato, per l’amore allo studio, ad Archimede; e fin qui don Abbondio non trovava inciampo; perché Archimede ne ha fatte di così curiose, ha fatto dir tanto di sé, che, per saperne qualche cosa, non c’è bisogno d’un’erudizione molto vasta. Ma, dopo Archimede, l’oratore chiamava a paragone anche Carneade: e lì il lettore era rimasto arrenato. In quel momento entrò Perpetua ad annunziar la visita di Tonio».
In realtà di Carneade si sa quanto basta e, per il lettore meno curioso o non troppo paziente, ne avanza anche. Cominciamo ad entrare in argomento riportando fedelmente parte di uno studio del 2010, cui faranno seguito, in successivi articoli, altri documenti.
Da “ATTI DEL CONVEGNO INTERNAZIONALE DI STUDI
MILANO, 21 MAGGIO 2010
ROCCA DI ANGERA (VA), 22 MAGGIO 2010”
Manzoni, all’avvio dell’ottavo capitolo del suo romanzo, ci presenta don Abbondio ‘ruminante’ la nota domanda su Carneade, il cui nome aveva trovato leggendo un «libricciolo» che gli era stato dato da un curato, suo vicino. Costui, «che aveva un po’ di libreria», gli «prestava un libro dopo l’altro, il primo che gli veniva alle mani». Quello su cui ‘meditava’ in quel momento Don Abbondio era, come si sa, «un panegirico in onore di san Carlo, detto con molta enfasi, e udito con molta ammirazione nel duomo di Milano, due anni prima». Manzoni, straordinario conoscitore del Seicento, sembra aver lasciato al caso la scelta. Ma la sera della lettura, che è anche quella del matrimonio a sorpresa e della notte dei subbugli (“degl’imbrogli e de’ sotterfugi”, n. d. r.), segue di pochi giorni la ricorrenza di San Carlo del novembre 1628. Si può supporre che il curato amico di don Abbondio si fosse trovato per le mani il panegirico perché l’aveva usato proprio per l’occasione della ricorrenza, che era festeggiata in tutta la diocesi di Milano. Si potrebbe anche congetturare che avesse voluto offrire a don Abbondio un modello per una predica in onore di san Carlo. Ma, se questo fosse il caso, la lettura che il nostro ne fa a posteriori attesta inderogabilmente la sua (già ben sottolineata) negligenza. L’ideazione manzoniana pone infatti a confronto il curato (pag. 51)
più colto, che preparava forse con cura le sue prediche, con il prete che, come da adolescente nella sua scelta «non aveva gran fatto pensato agli obblighi e ai nobili fini del ministero al quale si dedicava», così al presente s’accontenta di documentarsi sulla predica a ricorrenza avvenuta, per suo diletto («si dilettava di leggere un pochino ogni giorno»). (pag. 52)
Così nel 1626 il padre somasco Vincenzo Tasca (il cui panegirico è menzionato dal Manzoni) non si fa vincolare da peripezie metaforiche, nonostante impieghi una figura su cui intesse l’orazione. Infatti egli dice di voler, con le sue parole, «pennelleggiare l’aureola» di santità che si deve a san Carlo, delineandone la dottrina e la sapienza (il panegirico si intitola infatti La dottrina di san Carlo Borromeo spiegata da Vincenzo Tasca). Il somasco insiste molto sulla sua formazione universitaria e sulla sua inestinguibile brama di sapere, sulla dolcezza che provava nello studio della teologia e sull’efficacia della sua dottrina e del suo esempio nel modificare gli animi di coloro che lo avvicinavano. Egli parla a lungo, eccezionalmente, della dimensione contemplativa della spiritualità di san Carlo: «quella dolcezza, che non so se patisce, o pure fruisce l’anima contemplativa, quando nel suo Dio amorosamente s’india», «quella serenità che nel porto sicuro de’ piedi di un crocefisso dolcemente si gode» (p. 196). Il Tasca evidenzia anche la matrice stoico-cristiana della spiritualità di san Carlo. Come attesta la menzione a Carneade, il testo, che presenta molte novità, è costellato da frequentissimi riferimenti eruditi al mondo classico e mitologico. (pag. 69)
(1. continua)
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Note
(1) Filosofo e oratore di Cirene (214-129 a.C.), prese parte all’ambasceria che giunse a Roma nel 155 a.C. e fu cacciata dalla città per iniziativa di Catone il Censore; è elogiato da Cicerone nel De officiis.
(2) Discorso di elogio (questo fu pronunciato da P. Vincenzo Tasca il 4 nov. 1626, nel duomo di Milano, in onore appunto di S. Carlo Borromeo).