Duccio di Buoninsegna, La guarigione del cieco di Gerico, 1308,
Gallery di Londra
La vista (Mc 10,46) e il vedere (Lc 10,33)
Non vogliamo trascurare di accennare di passaggio a quella auspicabile educazione, che potrebbe riscattare tanta miseria morale, prospettare un futuro migliore, dignitoso e responsabile per i figli, attenuare la pesantezza dei costi sociali legati all’ignoranza e alla fatalistica o egoistica superficialità: così lontana dal valore e dalla poesia della vita.
Non necessariamente la promozione sociale e culturale appiana tutti i rapporti ed elimina possibili conflitti: la componente soggettiva caratteriale, le condizioni emotive e fisiche del momento, quel tanto di imponderabile tra libere scelte e condizionamenti imprescindibili non permettono la programmazione di un sereno colloquio susseguente ad un racconto che sia traumatico per l’ascoltatore. Va detto però che se non si dà una sufficiente capacità di comprensione del messaggio, in senso ampio, – sempre che da parte del comunicatore ci sia la necessaria prudente duttilità nel linguaggio ed esattezza nei contenuti –, lo stesso comunicatore si troverà in difficoltà. Insomma, fermo restando che non c’è nulla da fare nei confronti dei terrapiattisti e di simili fantastiche persone, cultura e condizione sociale accettabile costituiscono in ogni caso un terreno favorevole per il dialogo.
Resta però il fatto, – non unico, ma moralmente rilevante, e non vogliamo passarlo sotto silenzio –, che la responsabilità di confinare fin troppa gente, per esempio,
«Dint’ a nu vascio ’e chille,… chilli vascie…. I bassi…. addò ’a stagione nun se rispira p’ ’o calore pecché ’a gente è assaie, e ’a vvierno ’o friddo fa sbattere ’e diente…. Addò nun ce sta luce manco a mieziuorno…. Dove non c’è luce nemmeno a mezzogiorno…. Chin’ ’e ggente! Addò è meglio ’o friddo c’ ’o calore….» (cfr. Filumena Marturano);
di relegarla nell’emarginazione; di sfruttarla confinandola in una vergognosa e insopportabile schiavitù; di discriminarla e squalificarla;… quella responsabilità grava notevolmente su un certo mondo “bene”, quello straricco e ottuso, fantasticatore di imperi dinastici, incapace di vedere, capire, compatire,… che non ha tempo e che non vuol sentir parlare del buon Samaritano: uno che si sporca le mani per uno sconsiderato sconosciuto; per uno che lo doveva sapere che certe strade non si fanno da soli e a certe ore; per uno che, diciamolo pure, se l’è un po’ andata a cercare! Loro sono quelli che ci sanno fare, cominciando dal nulla; o che sanno genialmente gestire e ingrandire il patrimonio ereditato: e non importano i mezzi usati, compresi “gli altri”, considerati, essi pure, mezzi, strumenti e non altro. Non importa neppure che i modi della produzione di ricchezza possano essere origine di diffuse patologie maligne, aggravando la sofferenza in sé e, conseguentemente, acuendo le difficoltà a partire dalla presa d’atto a dalla comunicazione delle medesime.
Passiamo così, quasi inavvertitamente, dal mondo malinconico delle brutte notizie a quello del Vangelo, ossia della “buona novella” per antonomasia.
In questa sede, – è bene precisarlo –, parla, rigorosamente nel suo ruolo, un Assistente religioso: certamente senza abdicare, ma anche senza fondarsi sulla sua specifica qualifica di cappellano cattolico.
«Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto…. Un Samaritano, che era in viaggio, gli passò accanto e, vedendolo, fu mosso da misericordia. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”.» (Lc 10,30.33-35).
È questa una perla del Vangelo di Luca, come ugualmente lo sono la “parabola del figliol prodigo”, o il racconto de “i discepoli di Emmaus”.
Qui però ci troviamo davanti ad una universalità assoluta di contenuti e di stile: il comportamento del padre del figliol prodigo è certamente il paradigma dell’amore paterno umano, ma non può prescindere dal rimando all’amore di Dio, nell’ambito della cui misericordia, – intesa essenzialmente come perdono, ma anche come coinvolgimento con lo stato miserando del ritornante –, si colloca la narrazione della parabola stessa; i discepoli di Emmaus scoprono la filosofia della testimonianza, penetrano il senso delle Scritture, credono ai Sacramenti e alla risurrezione: vivono e si muovono alla luce della rivelazione. Nella parabola del buon Samaritano Dio non è neppure nominato; la misericordia ivi esemplificata non viene soprannaturalizzata, come accade in Matteo:
«In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me.» (Mt 25,40).
In Luca non si trova neppure un cenno al premio della vita eterna (cfr. Mt 25,46): non teologia né teleologia, ma misericordia gratuita, immediata, completa, duratura, contagiosa perché, secondo l’umanesimo evangelico, ogni uomo è potenziale “prossimo” di ogni altro uomo per il fatto di essere capace di prendersi cura, ossia di usare misericordia.
Il prendersi cura non cambia la natura della brutta notizia: questa ipostatica metamorfosi si realizza esclusivamente nella fede del Crocifisso risorto; il prendersi cura diventa però una concomitante buona notizia di coinvolgimento autentico che spezza la solitudine, versando sulle ferite l’olio della consolazione e il vino della speranza:
«….anche fuor di qui, questi si ricorderanno di noi,…»
(A. Manzoni, I Promessi Sposi, XXXVI, 5).
(3. continua)